C’era
una volta, su un’alta montagna, un’immensa distesa di neve, circondata da ghiacci
eterni.
Il vento giocava con la neve modellandone la
superficie e, con la sua forza, creava strade, gallerie, torri merlate, palazzi
incantati dalle guglie tortuose.
Il vento aveva innata la voglia di giocare e creare e, dopo aver costruito
tutte queste forme, ne rimaneva lui stesso estasiato, rimirandole.
Il suo compiacimento, però, non durava mai molto perché, appena il sole
sorgeva, i raggi riuscivano a fondere i suoi capolavori. Più ne creava, dando
forma concreta alla sua immaginazione, più il sole riusciva a distruggerli con
il suo calore.
Tutto ciò aveva l’apparenza di una guerra, anche se guerra non era, perché il
vento e il sole non potevano che comportarsi così: il vento soffiare e
modellare, il sole risplendere e riscaldare, così la neve diventava il loro
campo di battaglia.
Un giorno il vento fece il suo capolavoro più bello, un cavallino di neve, che
per il gran freddo divenne di ghiaccio. Le sue forme erano perfette e ben
proporzionate, era stato forgiato nell’atteggiamento di correre libero con la
criniera al vento ed era così trasparente che la luce si rifletteva sulla sua
superficie in mille colori cangianti.
Il vento, tuttavia, subito pensò al suo compagno di
giochi, il sole, che sicuramente appena sorto avrebbe cominciato a farlo
liquefare.
Anche il cavallino era consapevole della sua precaria esistenza e non sapeva
davvero cosa fare, essendo la sua natura di ghiaccio e non di qualche altro
materiale resistente al calore.
Il vento allora, poco prima del sorgere del sole, spinse con un soffio la sua
opera dentro ad una grotta dell’alta montagna.
Il cavallino lì si sentiva al sicuro, ma faceva freddo ed era tanto buio.
Per passare il tempo, contava le gocce che cadevano dal soffitto della grotta,
cercando di scoprirne la segreta melodia.
Non poteva neppure accendere un fuocherello, che lo avrebbe sicuramente
illuminato e riscaldato, perché il calore di ogni fuoco era per lui pericoloso.
Peccato essere così belli e così fragili! Peccato non poter correre liberi con
la criniera al vento come la sua immagine suggeriva!
Un giorno, poi, fu talmente stanco di questa situazione, che decise di uscire
allo scoperto.
Chiamò il vento, che subito accorse e lo risucchiò fuori verso la luce e il
calore del sole.
Al cavallino non importava più di morire, di perdere le sue forme, la sua
identità, ma era stanco di tutto quel freddo e di tutto quel buio.
Il vento e il sole, i due contendenti, per qualche attimo rimasero immobili ad
osservare il cavallino e la sua fine.
La
statua di ghiaccio cominciò a gocciolare , a perdere le sue forme perfette che
divennero sempre più imprecise, le zampe si piegarono e la testa con la bella
criniera si chinò verso terra.
Proprio mentre stava per scomparire, ecco che avvenne forse un miracolo: quando
l’ultimo strato si sciolse, venne alla luce il corpo di un cavallino vero che
il ghiaccio semplicemente ricopriva, come una dura armatura.
Il cavallino tutto contento salutò il vento e il sole e, per davvero, corse
libero verso l’orizzonte con la bella criniera al vento.
Il vento e il sole, le due forze antagoniste, il creatore e il distruttore,
ricambiarono l’allegro saluto del cavallino ora non più di ghiaccio, ma di
carne ed ossa.
Egli dapprima corse senza meta, ebbro di una libertà mai vissuta.
Ascoltava il battito degli zoccoli contro il suolo e gli sembrava di udire il
cuore della terra pulsare ritmicamente.
Quando correva su un terreno secco, sollevava un gran polverone che ovattava
suoni e colori, intorno; gli piaceva sentire il ritmo smorzato che il suo
galoppo produceva, se calpestava un tappeto erboso; mentre, quando entrava in
un bosco, doveva procedere a zig zag per non urtare gli alberi e questo per lui
era il divertimento più grande.
Nel guadare un fiume con l’acqua bassa ascoltava il melodioso sciacquio dei
suoi zoccoli ed, estasiato, lasciava che gli spruzzi gli lambissero il corpo.
Concedeva alle sue zampe il compito di condurlo, senza una meta precisa, senza
calcoli né aspettative, e così correva libero di spiaggia in spiaggia, di prato
in prato, di strada in strada; tutto era sempre nuovo e non si annoiava di
certo. Correva a sud, a nord, ad ovest e ad est.
Quando il sole tramontava fermava la sua corsa e
rimaneva incantato ad osservare il momento in cui il giorno confina con la
notte, quando i colori si smorzano e la luce diventa tenue, quando arriva il
momento del riposo.
Lui, felice, si addormentava sotto un albero ed aspettava con trepidazione il
nuovo giorno per riprendere la sua corsa senza meta, godendo di tutto ciò che
la strada gli portava innanzi.
Un giorno, però, si rese conto con dispiacere che non tutte le strade gli erano
accessibili e che, in fondo, non era poi così libero come pensava di essere:
quando era notte, doveva fermarsi perché non riusciva più a scorgere il
cammino; i fiumi in piena erano per lui una barriera insuperabile, così come le
paludi, le montagne scoscese, i boschi troppo fitti, quelli in cui non poteva
passare tra un albero e l’altro, ed, infine, le città con il traffico caotico
che, per lui, rappresentavano un serio pericolo.
Si sentì avvilito ed in più gli accadde un piccolo incidente: mise lo zoccolo
in una buca e si azzoppò.
Non era più in grado di galoppare e doveva accontentarsi di andare al passo.
La sua vita, a causa di ciò che era accaduto, prese un ritmo molto più lento e
lui divenne maggiormente osservatore e riflessivo.
Aveva, così, il tempo di esaminare accuratamente ogni cosa che la strada gli
poneva sotto gli occhi…e tutto gli sembrava diverso.
Scoprì cose che, a causa della fretta, non aveva mai visto né saputo
apprezzare.
Di alcuni alberi notò per la prima volta strane caratteristiche, come la
betulla che in primavera si squama e la cui corteccia bianca sembra staccarsi
dal tronco…e notò il guizzo dei salmoni, quando con un balzo risalgono le
cascate, nella stagione in cui depongono le uova alla sorgente dei fiumi….e
vide gli arcobaleni dopo i temporali, le libellule azzurre che volano sui
laghi, la prima neve come polvere bianca sulla cima delle montagne, il
bucaneve, fiore di primavera, che , con la sua forza, riesce a forare il
ghiaccio…tutte meraviglie che una volta gli erano nascoste e che ora aveva il
tempo di osservare e gustare. Continuando a guardarsi attorno con occhi più
attenti, imparò molte cose, diventando riflessivo e ponderato.
Gli venne così spontaneo porsi le grandi domande
dell’esistenza: si chiese il perché e quale fosse il significato della vita.
Anche quando la zampa del cavallino fu guarita perfettamente ed egli fu di
nuovo in grado di correre come prima, la sua andatura rimase lenta e il suo
procedere pensieroso.
Mille dubbi cominciarono ad assalirlo e, quando si trovava ad un bivio, non
sapeva più che strada prendere.
Aveva sempre paura di incontrare un fiume in piena o un bosco troppo fitto.
Quando poi la sua strada attraversava un tappeto erboso, quello che una volta
gli dava tanta gioia, sentiva dentro la compassione per tutti i fili d’erba che
i suoi zoccoli avrebbero calpestato.
Se attraversava un bosco, andava al passo, guardando sempre a terra perché
aveva paura d’inciampare e di cadere a causa di una radice troppo sporgente.
La sua vita divenne monotona come la sua andatura e, nonostante tutto il suo
elucubrare, a quelle domande che si era posto non riusciva a rispondere.
Un giorno, poi, più stanco ed annoiato che mai, vide su una foglia di gelso un
verme peloso dai vivaci colori.
Si incuriosì e rimase ad osservarlo. Il verme cominciò ad emettere una bava
bianca in cui si avvolse lentamente, con grande pazienza. Il bruco colorato era
scomparso e, al suo posto, era rimasto solo una specie di uovo bianco e setoso.
Il cavallino pensò che l’animaletto fosse morto e che quello era un modo
laborioso ed originale per autodistruggersi.
Dopo qualche tempo, ripassò accanto all’albero di gelso e si ricordò del bruco.
Rivide sulla foglia il bozzolo bianco che, però, ora presentava un foro.
Attraverso di esso, ne vide uscire un insetto che, appena fuori, dispiegò due
meravigliose ali colorate e se ne volò via verso un prato fiorito.
Il cavallino, interdetto, si domandò come fosse possibile che un verme quasi
morto, rivivesse e addirittura smettesse di strisciare, iniziando a volare.
Ci rifletté molto, fino a perdere il sonno.
Poi all’improvviso, venuta da non si sa dove, gli balenò in mente un pensiero:
“ Per
vivere veramente devi imparare a morire”.
Queste parole, che pure lo sconcertavano ed
impaurivano, non gli uscivano più di mente.
Non aveva nessuna intenzione di morire proprio ora che
era riuscito a sciogliere la sua corazza di ghiaccio.
Una mattina molto presto, quando il sole iniziava a sorgere, capì che, forse,
non era richiesto il suo sacrificio fisico e la perdita dell’esistenza, che non
doveva abbandonare ciò che amava.
Può darsi che quella frase gli suggerisse, invece, di uscire fuori dal
“bozzolo” che anche lui si era costruito proprio come il verme colorato. Capì
che doveva lasciare le sue paure, la ansie, i dubbi, le estenuanti ed inutili
elucubrazioni.
Comprese che, se ce l’avesse fatta ad uscire da tutte queste cose, si sarebbe
sentito talmente leggero da riuscire forse anche lui a prendere il volo.
Ma in concreto cosa doveva fare?
Solo provarci.
Non ce la fece subito, ma appena ebbe sufficiente fiducia e sicurezza in se
stesso e nei suoi mezzi, si sentì rinascere.
Gli sembrò di ritornare com’era prima, quando aveva iniziato la sua corsa
gioiosa.
Capì che l’incidente non era stato altro che un mezzo salutare per far sì che
in lui si sviluppasse una coscienza che, ai tempi della spensierata libertà,
non possedeva.
Di nuovo felice, riprese a correre verso l’orizzonte con la criniera al vento,
senza calcoli né aspettative, contento di tutto ciò a cui la strada lo
conduceva, di spiaggia in spiaggia, di prateria in prateria.
- Andrea Corsini -
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