Qualche giorno fa ho rivisto una persona
che conosco.
Che tristezza.
Che tristezza.
Enrico lavora (o meglio, considera un
lavoro quello che secondo me è un lavoro di merda) per una di quelle agenzie
che impestano il web alla ricerca di consulenti commerciali.
Quelle tanto per capirci che ti valutano solo
per quello che fai guadagnare a loro.
Senza uno straccio di rimborso spese, quattordici,
quindici ore al giorno al galoppo o di corsa rincorrendo appuntamenti presi dal
telemarketing (tra un messaggio e l’altro che ti chiede come è andata) e alla
sera dopo cena al computer a spedire mail contenenti feedback, relazioni delle
visite (perché c’è anche da dire che quelli, a fronte di niente oltretutto
pretendono anche questo) .
Stress alle stelle, giorni, settimane e mesi
che ti volano via senza che tu neanche te ne accorga.
Crede di essere indispensabile, nonostante
l’età non ha ancora capito che tanto per
loro non c’è problema, quello che non fai tu lo può fare benissimo anche un
altro.
Conoscendo molto bene le dinamiche e i
meccanismi, nella speranza qualche volta finalmente di riuscire a scuoterlo,
ancora una volta gli ho ricordato se vale davvero la pena sacrificare la
propria vita in cambio di cosa poi: un lavoro che poi non è nemmeno un lavoro, compensi,
gettoni o provvigioni, tantissime belle
promesse che, i primi, quando sei fortunato ti vengono pagati, le seconde che sai
già in partenza che non verranno mai mantenute.
Ma ne vale veramente la pena?
Lui, come sempre mi ha ascoltato con aria
rassegnata, mi ha chiesto consigli, mi ha detto che ho ragione, puntualmente
come ogni volta mi ha ricordato che è sfortunato.
A me dispiace, soprattutto immaginando
già, quando lo incontrerò la prossima volta, cosa avrà fatto per cambiare la
situazione.
Niente, niente di niente.
Enrico, guarda che la schiavitù è finita da un bel po’.
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